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Topolino #3290: Un insolito innocente

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Il #3290 di Topolinoè un numero di cui ho letto poco, appena tre storie, trascurando quella iniziale, nonostante la garanzia di una bella scrittura da parte di Federico Rossi Edrighi, ma onestamente non sono riuscito ad affrontare la lettura di una storia calcistica unita con una prima parte dedicata a uno sport che ormai ben poco mi riesce a raccontare. Così, dopo la recensione separata de La regina del fiume, proseguo con quella che considero la storia migliore del numero (anche se la lettura dello stesso è parziale):
Onesto per finta
Topolinia è colpita da un'ondata di furti ai danni dei cittadini più danarosi, ma nessuno dei ladri locali, Pietro Gambadilegno in testa, è coinvolto nell'impresa criminosa. Il buon Gamba, però, è intenzionato a porre un freno alla cosa per riportare la criminalità topolinese in prima linea e gli capita l'occasione per iniziare tale percorso di... "riabilitazione": svaligiare la casa dell'ipnotista Topperfield. Quest'ultimo, però, è pronto ad accoglierlo e, grazie alle sue capacità, lo convince di essere un cittadino modello di Topolinia.
In qualche modo la storia di Giorgio Fontana risulta scontata dal punto di vista giallistico, ma l'interesse dello scrittore non è tanto quello di scrivere un'avventura di genere, ma giocare con l'idea di un Gambadilegno improvvisamente onesto, al quale, peraltro, crede il solo Pippo. La prima parte della storia risulta così leggera e gradevole tra l'assurdo comportamento dell'ipnotizzato Gamba e la gustosa interazione di quest'ultimo con il migliore amico di Topolino. Quest'ultimo entra in scena nella seconda parte, quella che risolve la vicenda e riporta lo status quo alla normalità e che, soprattutto, conduce il lettore al cuore della storia: Gambadilegno era onesto per finta, quindi non poteva essere accettabile la sua condizione, in nome della libera scelta di ognuno.
Ad affiancare il romanziere troviamo il maestro Giorgio Cavazzano, come sempre in gran forma e che nel finale strizza un po' l'occhio al suoi stesso Topolino, quello ritratto ne La voce spezzata, la storia di quasi trent'anni fa che aveva riportato un po' di entusiasmo sul personaggio.
Paperino e Gastone cugini sulla neve
La chiusura del numero è affidata a Carlo Panaro con Il comando vocale, che è un particolare dispositivo in grado di far dire alle persone investite dal raggio prodotto il contrario di quel che pensano. Con un insolito colpo di fortuna, Paperino ne entra in possesso e lo utilizza per vendicarsi del cugino Gastone che si è vantato in maniera particolarmente antipatica delle sue fortune.
In qualche modo la storia è un mix delle due anime di Paperino, da un lato quella sfortunata e rancorosa e dall'altro il papero ottimista pronto a lanciarsi in nuove sfide. Questo permette a una storia forse un po' debole a causa di un soggetto obiettivamente scontato di riuscire gradevole e divertente, nonostante un paio di personaggi risultino leggermente fuori posto (ad esempio: cosa ci fa il tipico rigattiere cinese in una località turistica montana?).
I disegni di Ettore Gula si mantengono con una certa coerenza all'interno della linea grafica tipica dei cartoni animati (in particolare quelli di Mr.Bean), anche se in un paio di occasioni disegna delle situazioni non molto chiare, come il poliziotto che si muove sulla neve con la normale divisa primaverile, mentre spesso vediamo le forze dell'ordine in ambientazioni simili indossare comunque giacconi pesanti, come invece avviene nella scena finale della stessa storia.

Giochi da pavimento

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Nel 2000 la Sellerio ha dato alle stampe una piccola edizione italiana del famoso Floor Games di Herbert George Wells, lo stesso autore de La macchina del tempo e La guerra dei mondi. E' un gran bel libro, che in lingua originale è liberamente disponibile sul Project Gutenberg insieme con il successivo War Games. Contiene delle proposte interessanti e alternative non solo per il nostro mondo moderno, ma anche per l'epoca, grazie all'inventiva di Wells, che propone al lettore l'uso di giochi e giocattoli in legno, con tanto di regole e costruzione dei mondi: tutti ingredienti che oggi si ritrovano in molti videogiochi di genere.
La lettura del librettino è, dunque, altamente consigliata, anche visto il periodo, e potete inoltre trovare un'edizione corredata dalle immagini su archive.org. Un'altra edizione elettronica, in pdf, è quella rilasciata dalla Penn State University.
Buona lettura e, soprattutto, buoni giochi!

Ritratti: Sophus Lie

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Sophus Lie - via commons
La teoria dei gruppi è stata in pratica fondata da quelli che amo definire i matematici romantici, Evariste Galois e Niels Abel, però non tutti i gruppisti sono romantici, o quanto meno non nel senso dei due fondatori. Ad esempio non c'è alcuna morte per duello o per povertà nella biografia di Sophus Lie, matematico norvegese, proprio come Abel, è altra figura fondamentale nel panorama della teoria dei gruppi.
Nato il 17 dicembre del 1842 (quindi sono puntualmente in ritardo per raccontarvi le solite quattro cose!) iniziò ufficialmente la sua carriera matematica nel 1869 quando venne pubblicato il suo primo lavoro matematico, Repräsentation der Imaginären der Plangeometrie (più o meno rappresentazione degli immaginari in geometria piana) sulla rivista Journal für die reine und angewandte Mathematik. L'uscita dell'articolo gli permise di ottenere una borsa di studio che gli consentì di andare a Berlino, dove rimase dal settembre di quello stesso anno fino al febbraio dell'anno successivo.
Il suo interesse verso la matematica, però, era stato puramente incidentale: il suo desiderio era, infatti, intraprendere una carriera militare, che gli era preclusa a causa dei suoi problemi di vista. Fu così che si iscrisse all'Università di Christiania, la moderna Oslo, dove seguì vari corsi scientifici. Tra questi c'erano in particolare il corso di Ludwig Sylow incentrato sui lavori di Abel e Galois tenuto nel 1862 (anche se è un po' in dubbio che Lie seguì le sue lezioni, sebbene l'argomento delle sue ricerche suggerirebbe il contrario) e quello di Carl Bjerknes sulla matematica. Ad ogni modo Lie non aveva mostrato alcuna particolare capacità matematica e anzì restò per un annetto circa nel limbo di quale interesse intraprendere tra i molti esplorati (fisica, zoologia, astronomia...). Poi nel 1866 iniziò a divorare libri di matematica dalla biblioteca dell'università(1).
E fu allora che la passione per questa affascinante disciplina lo prese, si potrebbe dire inevitabilmente: raccontano gli annali(1) che nel mezzo della notte, dopo aver raggiunto una brillante nuova idea matematica, Lie andò di corsa a svegliare il suo amico Ernst Motzfeldt che evidentemente dormiva beato dicendogli:
L'ho trovata, ed è piuttosto semplice!
Forse l'idea cui si riferiva era quella che lo avrebbe portato all'articolo sui numeri immaginari: d'altra parte la strada intrapresa gli era stata suggerita dai lavori di Julius Plücker e Jean-Victor Poncelet, con in particolare il primo che si occupò di geometria analitica(1), fondamentale proprio per i gruppi di Lie.
Torniamo, però, al giovane Sophus in viaggio per l'Europa. Dopo Berlino, città dove conobbe Feliz Klein, di cui peraltro divenne buon amico, si spostò a Parigi, dove venne raggiunto da Klein un paio di mesi più tardi. Qui conobbe i matematici Camille Jordan e Gaston Darboux: in particolare fu proprio l'incontro con la Jordan a dare a Lie la consapevolezza di quanto la teoria dei gruppi, oggetto delle ricerche della matematica francese, fosse importante per la geometria(1).
Le sue peregrinazioni, però, vennero interrotte dalla guerra franco-prussiana scoppiata il 19 luglio 1870, che costrinse Klein ad abbandonare la Francia. Il problema fu che lo stesso Lie si ritrovò in una situazione incresciosa: sospettato di essere una spia prussiana, venne arrestato, per poi venire rilasciato un mese più tardi grazie all'intervento di Darboux. Nel frattempo, però, Lie era diventato famoso in Norvegia proprio grazie al suo arresto.
La sua carriera accademica successiva al ritorno in patria, avvenuto all'incirca nel 1871 quando divenne assistente a Christiania. I risultati del suo lavoro, che lo portarono al dottorato nel luglio del 1872, mostrarono quanto Lie fosse diventato un matematico di grande abilità e ciò spinse il parlamento norvegese a istituire per lui una cattedra in matematica a Erlangen.
Il suo lavoro più noto, però, è quello dedicato ai gruppi di trasformazione, oggi noti come gruppi di Lie, sviluppato in un poderoso trattato in tre volumi Theorie der Transformationsgruppen, pubblicato a Leipzig tra il 1888 e il 1893 con l'aiuto di Friedrich Engel, matematico tedesco giunto a Christiania nel 1884.
Ora, per avere un'idea di cosa sia un gruppo di Lie, cerchiamo di farci innanzitutto un'idea di cosa sia un gruppo: un insieme in cui introduciamo un'operazione è detto gruppo se, stringendo stringendo, i risultati dell'operazione danno come risultato un elemento dell'insieme di partenza. Un gruppo di Lie è un gruppo topologico (ovvero un gruppo che ha anche le proprietà di uno spazio, nel dettaglio uno spazio topologico) le cui operazioni sono funzioni analitiche, ovvero funzioni che possono essere sviluppate come somma di potenze intorno a un elemento del gruppo.
Un esempio di gruppo di Lie importante per la fisica è quello che possiamo costruire a partire dalle matrici di Pauli, importanti per la rappresentazione matematica dello spin delle particelle, oppure il gruppo di Weyl-Heisenberg, da cui è possibile ottenere le relazioni di commutazione canoniche a loro volta direttamente connesse con il principio di indeterminazione di Heisenberg. Altro esempio di gruppo di Lie è quello costituito dalle relazioni di trasformazione di Galileo che permette di passare da un sistema di riferimento a un altro in moto relativo rispetto al primo e che è alla base dell'equazione di Schrodinger.
Pur non rientrando nella categoria dei matematici romantici, Lie ebbe anch'esso i suoi bravi problemi di salute: nel 1889 soffrì di una non meglio specificata malattia mentale, dopo la quale tagliò i rapporti con Klein ed Engel. Non è detto, però, che tale allontanamento fosse dovuto esclusivamente alla malattia: secondo Straume il motivo principale fu il così detto Programma di Erlangen di Klein, che in realtà vedeva proprio in Lie il principale motore creativo. E quando si arrivò alla ricostruzione storica degli eventi, quello che scrisse Klein non sembra piacque molto a Lie, che non è difficile immaginare come la prese(1).
Alla fine fu l'anemia, causata da un errato assorbimento della vitamina B12, a portare via Lie all'età di soli 56 anni.
  1. O'Connor, John J.; Robertson, Edmund F. (February 2000), "Sophus Lie", MacTutor History of Mathematics archive, University of St Andrews. 

The First: Destinazione Marte

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Ieri sera è stato lanciato con un evento gratuito in vari cinema italiani The First, la nuova serie di Beau Willimon, il creatore di House of Cards. Sono andato al Cinema Arcobaleno, l'unico nella città milanese che ha aderito all'inizitiva per vedere i primi due degli 8 episodi di cui è costituita la prima stagione, in Italia presentata in esclusiva da Tim Vision. Queste le impressioni che mi ha lasciato la serie.
Intanto la trama: The First racconta la sfida della prima missione umana verso Marte. Tutto, però, inizia con un incidente, l'esplosione del razzo che porta il primo equipaggio destinato a giungere sul pianeta rosso. Il protagonista della serie, Tom Hagerty, interpretato da Sean Penn, non è però a bordo della navicella: per un ancora ignoto motivo è stato escluso dall'equipaggio. Ad affiancarlo come coprotagonista troviamo Natascha McElhone che interpreta Laz Ingram, scienziata e CEO della ditta che ha ottenuto l'appalto dalla Nasa per costruire il razzo, denominato come Providence e che possiamo considerare come l'equivalente al femminile di Elon Musk. Ovviamente, oltra ai due protagonisti principali, c'è un contorno di personaggi più o meno secondari, qualcuno più efficace qualcun altro meno, qualcuno più importante di altri, come la figlia di Hagerty, qualcuno con una semplice comparsata. La serie è anche ricca di piccole citazioni, alcune facilmente riconoscibili, come quella di Carl Sagan sul vivere su un granello di polvere spospeso su un raggio di Sole, altre un po' meno.
Come in tutte le serie, i vari personaggi verranno approfonditi man mano che la trama andrà sviluppandosi, ma già in questi due episodi emergono elementi interessanti da quelli che già si intuisce saranno i coprotagonisti della serie, che permettono di fornire riferimenti storici, come quello relativo all'esplosione del Columbia nel 2003, o di costruire il contesto geopolitico: gli Stati Uniti d'America, infatti, sono in una situazione complicata dovendo affrontare i problemi dovuti ai cambiamenti climatici. Questo, unito alle istanze di maggiore concentrazione delle risorse sulle emergenze locali, risulta il principale ostacolo che i protagonisti dovranno superare nel corso dei primi due episodi a fronte del rifinanziamento della missione dopo l'esplosione.
A proposito di quest'ultima, è interessante osservare come la ricostruzione dell'impegno degli scienziati e degli ingegneri della Nasa per comprendere le cause dell'esplosione sia sembrata coerente con una situazione del genere e ancora più interessante è la presunta (come spiegherò a breve) causa dell'incidente: l'equipaggio della Providence, come rito scaramantico, baciava una monetina che poi, prima della partenza, veniva consegnata a un inserviente. A quanto pare, questa monetina, incastratasi in uno dei sistemi di sgancio dei motori laterali, è stata lanciata in direzione del serbatoio principale, bucandolo e provocandone l'esplosione.
Questo dettaglio mette di fronte allo spettatore quanto un progetto del genere si esponga comunque all'imponderabile, come un proiettile sparato ad alta velocità per più o meno citare a memoria la frase dell'ingegnere responsabile del progetto. D'altra parte il pubblio che assiste ai lanci è posto a una tale distanza che immaginare la possibilità per un oggetto che vola ad alta velocità di riuscire a trovarsi nello spazio aereo del razzo risulta particolarmente difficile: bisognerebbe essere parecchio complottisti.
Inoltre la discussione sul rifinanziamento della missione e più in generale tutto The Firstè fortemente concentrato sugli Stati Uniti e sul loro sforzo per portare gli esseri umani su Marte, stridendo e non poco su come tale missione sembra si possa costruire, come suggerito per esempio da Mars Horizon, ovvero come uno sforzo congiunto di varie agenzie spaziali mondiali, su tutte Nasa ed Esa. Non dimentichiamo che costruire un'astronave, probabilmente in orbita, in grado di portare un equipaggio di 5/6 persone verso Marte e per una missione della durata di almeno due anni (durante i quali gli astronauti devono anche sopravvivere) richiede uno sforzo economico che non è sostenibile da un'unica nazione.
A parte questo piccolo dettaglio (e qualche riferimento cronologico che lascia un po' perplessi), spiegabile con il semplice fatto che, come House of Cards, anche The First vuole essere un modo per discutere gli aspetti sociopolitici degli Stati Uniti attuali, la serie si presenta molto bene e propone in sottotraccia un velato elemento mistery, rappresentato dalla voce narrante, che per quanto non dica affermazioni particolarmente inquietanti, ha un tono e soprattutto si presenta in momenti che la rendono piuttosto equivoca. Ancora non so, nonostante l'interesse per il tema e la cura con cui la serie è stata realizzata, se proseguirò la sua visione. Sta di fatto che ci troviamo comunque di fronte a un bel prodotto dell'intrattenimento, che cerca di catturare il sogno dell'esplorazione e della colonizzazione spaziale coniugandolo con la precisione e il dettaglio tecnico e scientifico necessari.

Dobble e il sistema di Steiner

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A volte le pause pranzo sono particolarmente stimolanti per trovare spunti per scrivere articoli. E' il caso del post di oggi: un paio di giorni fa, infatti, si discuteva di Dobble, un gioco da tavolo costituito da 55 carte circolari su cui sono apposti 8 simboli e ogni carta ha uno e un solo simbolo in comune con un'altra carta presa a caso dal mazzo. Ovviamente la curiosità è su quale sia la matematica sottesa al gioco.
La risposta, quanto meno quella più semplice e superficiale, è abbastanza ovvia: la combinatoria. Questa branca della matematica si occupa degli insiemi costituiti da oggetti finiti, andando a studiare permutazioni, combinazioni, quadrati magici e altre robette del genere, più o meno tutte nel campo dei giochi, come le disposizioni dei pezzi sulla scacchiera. In particolare per Dobble giocano un ruolo fondamentale i sistemi di Steiner, che rientrano nella sottobranca della matematica nota come block design (qualcosa come proggrammazione a blocchi - lo so, ho forzato un po' la traduzione!).
Il sistema di Steiner, scoperto nel 1853 dal matematico svizzero Jakob Steiner, è una particolare struttura matematica costituita da un insieme $S$ di $n$ elementi finiti, strutturati in sottoinsiemi di $k$ elementi detti blocchi con la proprietà che $t$ blocchi hanno in comune uno e un solo elemento. Tutto ciò viene matematicamente indicato come $S (t,k,n)$.
Ad esempio il sistema $S (2,3,n)$ è un insieme di $n$ elementi sistemati in blocchi di 3 elementi. Inoltre i blocchi che hanno in comune un elemento sono solo due, o per dirlo meglio due blocchi presi a caso hanno in comune uno e un solo elemento.
Forse più chiaro con l'esempio di $S (3,4,n)$. In questo caso i blocchi sono costituiti da 4 elementi mentre se prendiamo tre blocchi presi a caso, questi avranno in comune uno e un solo elemento, non di più.
Quindi il Dobble ha delle buone possibilità di essere un sistema di Steiner. Per capire se sia o meno un sistema di Steiner, proviamo a capire quanti elementi sono necessari per costruire un sistema di Steiner con blocchi da 8 elementi ciascuno e che al massimo hanno uno e un solo elemento in comune. Un modo semplice per determinare un sistema del genere, con $t=2$ e $k=8$, è sapere che il sistema $S(2,q+1,q^2+q+1)$ è un sistema di Steiner. In questo caso, ponendo $q=7$ si ottiene $S(2,8,57)$, che peraltro contiene 57 blocchi da 8 elementi ciascuno, mentre Dobble ne contiene solo 55. Se però Dobble lo costruiamo come un sottoinsieme di $S$, allora la proprietà fondamentale del sistema, ovvero presi due blocchi qualsiasi questi avranno in comune uno e un solo elemento, continuerà a essere preservata. Quindi il Dobble non è altro che un sistema di Steiner $S(2,8,57)$ con due blocchi in meno. Questo fatto dovrebbe avere come conseguenza che un simbolo compare solo su 6 carte e 14 su 7, mentre gli altri 50 su 8 carte.
Una interessante curiosità che ho scovato mentre approfondivo la questione è che il numero di carte/blocchi per il Dobble, date le condizioni iniziali, può essere determinato senza conoscere la formula, come mostrato anche con paginate di calcoli combinatorici da Clare Sudbery su Dobble vision. In particolare ecco il passaggio in cui la Sudbery ottiene il fatidico 57:
Let’s suppose, just for a minute, that each symbol occurs eight times throughout the deck of cards. At the moment this is just a guess, based on a bit of intuition and the fact that there are eight symbols per card. That would mean there were eight cards containing the number 1 (see diagram a bit lower down).
These eight cards all have one thing in common: the number 1. This means they can’t have anything else in common. Because every card has one thing — and only one thing — in common with every other card in the deck. If we were to pick any two of these eight cards, they would have the number 1 in common. This means that every single one of the other (8 x 7 =) 56 symbols on these eight cards must be a different unique symbol. Ooh! That makes 57 symbols altogether!
Più avanti nel suo lungo articolo riuscirà anche a ri-scoprire la formula per il calcolo del numero di blocchi, per cui la lettura è altamente consigliata.

La storia di Freddie il fotone

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cc @astrilari @stefacrono @Pillsofscience @cosmobrainonair @Scientificast @MathisintheAir @mrpalomar
Dopo una lunga gestazione durata diversi anni, arriva finalmente al cinema il film dedicato a Freddie Mercury e ai Queen, Bohemian Rhapsody, come il titolo di una delle canzoni più note e di successo della band inglese di nerd e disadattati che ha rivoluzionato il mondo del rock e della musica in generale. Indubbiamente un film su Freddie Mercury ha nella colonna sonora il suo punto di forza, grazie alla forza trascinante della musica dei Queen: devo, in effetti, confessare che le ho cantate più o meno tutte, ovviamente sottovoce, e ho stentato a trattenermi dal tenere il ritmo come se fossi a un loro concerto, in particolare in occasione di We will rock you, peraltro uno dei pezzi scritti da Brian May, e che in effetti rappresenta molto bene l'altra rivoluzione che i Queen hanno portato nella musica, il coinvolgimento del pubblico durante i live.
Nel complesso il film, pur di fronte a differenze, anche abbastanza importanti, nella biografia, risulta molto ben fatto e ben recitato. D'altra parte il compito per gli attori non era agevole: muoversi sul palco come degli animali da palcoscenico come i Queen era abbastanza arduo, in particolare il compito di Rami Malek che interpretava Mercury. D'altra parte, se pensiamo un attimo all'impianto del film, le licenze che Anthony McCarten si è preso nella sceneggiatura sono in qualche modo giustificabili. Il film, infatti, ruota intorno a quello che viene considerato non solo il concerto migliore della band, ma il live migliore in assoluto nella storia della musica: la performance di 20 minuti sul palco del Live Aid nel 1984 a Wembley. In questo senso risulta incredibilmente emozionate, oltre che ben interpretata nelle movenze, proprio la scena che sintetizza questi mitici 20 minuti, e questo anche grazie alla regia di Bryan Singer e Dexter Fletcher, che lo ha sostituito quando Synger, a film quasi ultimato, è stato licenziato.
Se il Live Aid era da considerarsi punto di partenza e di arrivo della narrazione, il resto del compito del film è stato quello di raccontare la personalità di Mercury, i suoi obiettivi e in parte i suoi eccessi, enfatizzando gli eventi e le persone che in qualche modo hanno contribuito a questi eccessi. Emerge un personaggio molto partecipe non solo nella musica, ma anche nei rapporti con molte delle persone che lo circondavano: in qualche modo è proprio questa forte partecipazione emotiva che lo spinse verso l'eccesso (mi spingerei a fare dei paragoni con alcuni fisici teorici che ebbero una porzione della loro vita ricca di eccessi, ma preferisco evitare).
Dato in particolare quest'ultimo come compito del film, le licenze poetiche di McCarten sono quasi comprensibili, e per approfondirle vi rimando alla sezione relativa sulla pagina di en.wiki del film.
Nel resto dell'articolo vorrei, invece, soffermarmi sulla canzone, scritta proprio da Freddie Mercury, che in qualche modo fornisce il titolo del post, Don't stop me now.
Viaggiare alla velocità della luce
Come scriveva Alexis Petridissul Guardian, la canzone è ricca di edonismo e promiscuità. D'altra parte molti versi sono un inequivocabile, quanto addirittura esplicito riferimento al sesso. Inoltre il testo è scritto per essere calzante sia per un uomo, come sarebbe ovvio per una band maschile, ma anche per una donna, frutto della doppia sensibilità sessuale di Mercury.
Nel testo ci sono, però, alcuni riferimenti scientifici abbastanza interessanti che potrebbero anche essere una diretta influenza della presenza di Brian May nel gruppo. Scorrendo il testo i primi riferimenti scientifici sono di tipo astronomico:
I'm a shooting star, leaping through the sky
Like a tiger defying the laws of gravity
In due versi introduce due concetti differenti: da un lato un oggetto astronomico, una stella cadente, ovvero un frammento di un asteroide che si incendia mentre sta cadendo sulla superficie terrestre dopo essere stato catturato dalla gravità del pianeta, dall'altro l'immagine di una tigre che sfida la legge di gravità evidentemente provando un balzo rischioso per lanciarsi sulla sua preda.
I'm burnin' through the sky, yeah
Two hundred degrees
That's why they call me Mister Fahrenheit
In questo caso il chiaro riferimento è alla scala di temperature utilizzata nel mondo anglosassone, che vede la temperatura di ebollizione dell'acqua a 212° invece che a 100° come nella scala Celsius. Da qui il nomignolo che il protagonista della canzone si "merita".
I'm traveling at the speed of light
I wanna make a supersonic man out of you
Qui la questione scientifica è evidente e al tempo stesso sottile. Il protagonista viaggia alla velocità della luce (poco meno di 300000 km/s), ma si definisce uomo supersonico (più avanti donna supersonica), visto che la velocità della luce è un limite invalicabile per qualunque oggetto che si muove nell'universo, come Mercury evidentemente ben sapeva proprio grazie al buon Brian May! Questo vuol dire che, pur viaggiando alla velocità della luce, poteva al massimo essere supersonico.
Yeah, I'm a rocket ship on my way to Mars
Life on Mars di David Bowie era uscita nel 1971, mentre il progetto Apollo era stato sospeso giusto l'anno dopo, eppure il sogno di andare su Marte era in qualche modo ancora vivo nella cultura popolare, come testimonia il verso qui sopra.
Non c'era, però, solo il sogno, ma anche l'incubo: la guerra fredda era ancora in corso e il rischio di una guerra calda nucleare non era ancora sopito. Allora Mercury prova, evidentemente, a esorcizzare questo rischio con un tris di versi di chiaro riferimento erotico:
I am a sex machine, ready to reload
Like an atom bomb about to
Oh, oh, oh, oh, oh explode
I Queen, dopo i Radiohead (e forse gli Offspring), sono uno dei gruppi più acculturati del panorama musicale mondiale e anche una semplice canzone dal ritmo incessante e travolgente e dal testo decisamente ammiccante (mi sa che sono stato piuttosto buono!) mostra questa propensione culturale della band, che già era evidente sin da quel capolavoro che è A night at the opera.
Ovviamente potrei provare a raccontarvi altri ganci scientifici, alcuni forzati altri meno, con la vasta produzione dei Queen, ma vi rimando al blog di Ilaria Arosio per approfondire qualcosa su '39, tratta proprio da A night at the opera e scritta dall'astronomo del gruppo, Brian May.

Topolino #3291: Un corale Buon Natale

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Bisognava attendere Natale per avere un numero corale di Topolino. A sommario, infatti, dopo la storia d'apertura con Topolino protagonista, il resto del numero presenta storie con protogonisti differenti, proponendo così ai lettori un ampio spaccato del vasto cast disneyano. Del resto delle storie partirei con il ritorno della serie I tesori del grande blu.
Alla ricerca della slitta di Babbo Natale
L'unico elemento in comune alle varie storie del numero è la presenza di Babbo Natale. D'altra parte non tutti gli autori possono avere la libertà di Carl Barks che in molte storie non solo dava per scontato che il lettore non credesse nell'esistenza di un magico essere che consegna i regali la notte della vigilia, ma che gli stessi nipotini, nonostante l'età, sapessero della sua non esistenza. Certo, negli anni Babbo Natale ha iniziato a essere veramente interpretato in quel della Finlandia, in modo tale che i genitori non si sentissero in colpa a parlare ai figli del personaggio. Date queste premesse è allora più che ovvio che ogni storia del numero natalizio preveda la presenza della pacioccosa e commerciale reinterpretazione del famoso San Nicola di Bari.
Il personaggio si è fuso con la tradizione fantastica nordica, fornendogli gli elfi come assistenti nella sua bottega artigiana dove costruisce i regali per tutti i bambini del mondo. Nel Natale sotto i mariSisto Nigro fa perdere la slitta di Babbo Natale in fondo al mare a causa di un elfo pasticcione che, invece di prepararla per la partenza, decide di provarla, sperimentando prodezze acrobatiche che gli fanno perdere il controllo della slitta, che cade nel bel mezzo del misterioso quadrangolo delle Sperdutas. Così Babbo Natale si rivolge a Paperone, che in quel momento ospita al deposito il suo amico dei sette mari, il capitano Pato, per recuperare la magica slitta grazie al Paper Kraken. Così Paperone e Pato partono alla volta dei misterioso quadrangolo per l'operazione di recupero più incredibile della storia!
L'avventura scritta da Nigro, nonostante le premesse natalizie, scorre come una buona storia di genere, in qualche modo verniana per ispirazione, anche se più ingenua rispetto ai capolavori fantascientifici dello scrittore francese. Viene poi impreziosita dagli spettacolari e dettagliati disegni di Roberto Vian, che mostra tutta la forza del suo stile preciso e dettagliato non solo in quadruple d'effetto o con doppie vignette dalle inquadrature cinematografiche, ma anche nei primi piani dei personaggi.
Natale nello spazio
La chiusura del numero è affidata a Super Pippo e il Babbo spaziale, storia un po' fantascientifica e un po' assurda, come da migliore tradizione del personaggio, scritta da Alessandro Sisti. In qualche modo la storia si pone in diretta connessione con L'ultimo viaggio di Babbo Natale, storica storia natalizia scritta da Luigi Mignacco per i disegni di Massimo De Vita dove si stabilisce che non è il solo Pippo a credere in Babbo Natale, ma anche il suo geniale nipote Gilberto. E la storia inizia proprio con quest'ultimo che mostra allo zio il software che ha creato per monitorare il viaggio notturno di Babbo Natale.
Peccato che all'improvviso, poco prima di andare a letto, la slitta scompare dallo schermo. Bisogna ritrovare al più presto il buon Babbo Natale: questo è un lavoro per Super Pippo! Il supereroe dovrà addirittura andare nello spazio per recuperare il dispensatore di regali, scoprendo che ogni pianeta abitato ha il suo Babbo Natale.
La storia di Sisti, nonostante le stranezze, almeno per un lettore adulto, scorre abbastanza velocemente, anche se in un paio di punti non si vede l'ora di voltare la pagina. Per contro ottima la prova di Emmanuele Baccinelli, che pur di fronte a una storia di impianto fondamentalmente classico, riesce a proporre una costruzione della pagina più dinamica della media, grazie ad alcune pagine con vignette a sviluppo orizzontale tipiche delle storie pikappike o delle storie più sperimentali disegnate da De Vita. In qualche modo anche il tratto è devitiano, anche se più morbido e rotondo rispetto a quello del maestro disneyano, forse grazie all'influenza, questa evidente soprattutto nei personaggi di contorno, di autori come Stefano Intini e Lucio Leoni.
Nel complesso un buon numero, considerando il suo più che evidente obiettivo: accompagnare i lettori verso il Natale 2018.

Carol of the bells

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Mykola Leontovych
via commons
Carol of the bellsè una canzone natalizia composta dall'ucraino Mykola Leontovych nel 1914 con le parole dello statunitense Peter J. Wilhousky. Si basa sul canto popolare ucraino, sempre natalizio, Shchedryk. Mentre il testo di Wilhousky è protetto da copyright, le musiche di Leontovych sono in pubblico dominio. La marcia del compositore ucraino ha un ritmo decisamente coinvolgente con alcune inflessioni oserei dire gotiche che la rende perfetta per la versione symphonyc metal della Trans-Siberian Orchestra, a quanto pare in collaborazione con i Metallica.
Quindi Buon Natale con Carol of the bells:

Naughty Christmas

Il giardino del diavolo

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Un giardino del diavoloè un'ampia zona all'interno della foresta pluviale amazzonica costituita quasi esclusivamente da un'unica specie, la Duroia hirsuta. I giardini del diavolo sono immediatamente riconoscibili poiché la supremazia dei una singola specie di alberi è drammaticamente differente rispetto alla biodiversità dell'intera foresra.
I giardini del diavolo devono il loro nome poiché gli autoctoni credevano che uno spirito maligno, Chullachaki, abitava la foresta.
La formica Myrmelachista schumanni, nota anche come formica dei limoni, crea i gardini del diavolo avvelenando sistematicamente tutte le piante dell'area eccetto la D. hirsuta, l'albero dentro cui nidifica. La formica avvelena le piante iniettando un acido formico alla base delle foglie. Uccidendo le altre piante, la formica permette la crescita e la riproduzione della D. hirsuta, i cui steli cavi forniscono degli ottimi siti per i nidi delle formiche; una singola colonia di formiche può avere più di tre milioni di operaie e 15000 regine e può sopravvivere per più di 800 anni. Sebbene le formiche difendano la zona dagli erbivori, le dimensioni del giardino sono limitate dalla distruzione delle foglie che aumenta con l'espansione, fino a che le formiche non sono più in grado di difendere gli alberi oltre un certo punto.

L'universo come piano proiettivo

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Mentre scrivevo l'articolo sul Dobble, mi sono accorto di una particolare proprietà: il sistema di Steiner generato dalla formula $S(2,q+1,q^2+q+1)$ è anche un piano proiettivo di ordine $q$. Questa struttura matematica non è altro (semplificando all'osso) che un piano euclideo con una retta posta all'infinito come bordo del piano stesso, ottenendo così una violazione del postulato delle rette parallele senza modificare la geometria euclidea del piano. Tra le proprietà del piano proiettivo risultano interessanti quelle relative alla sua superficie, che non è orientabile, come un nastro di Moebius, ed è in un certo senso simile a una bottiglia di Klein.
Quindi sia un nastro di Moebius sia una bottiglia di Klein sono dei modelli di piano proiettivo, nonostante non abbiano nulla a che fare con il canonico piano. Questo vuol dire che, partendo dalle restrizioni sperimentali sulla piattezza dell'universo, è possibile immaginare l'universo come piano proiettivo. Tale supposizione ha portato John Horton Conway e Juan Pablo Rossetti a suggerire dieci possibili forme finite per l'universo, chiamate platycosm. Alle dieci finite (tra cui ci sono sia il nastro di Moebius, sia la bottiglia di Klein) vi sono anche delle strutture infinite come il prodotto cartesiano tra un cerchio e un piano infinito.
Conway, J. H., & Rossetti, J. P. (2003). Describing the platycosms. arXiv preprint math/0311476.
Una delle conseguenze dei platycosmè che, se ad esempio l'universo è un nastro di Moebius, partendo dalla Terra con una navicella spaziale e viaggiando dritti, per ritrovarci nell'esatta posizione di partenza dovremmo compiere il giro dell'universo per due volte.
Ad ogni modo, l'aspetto interessante della faccenda è che, mentre siamo tutti impegnati a utilizzare un piano infinito per descrivere la geometria piatta dell'universo che siamo in grado di osservare, i matematici semplicemente ci suggeriscono che l'universo potrebbe curvare per ogni dove ma avere comunque una geometria globalmente piatta.

Vivere in un dodecaedro

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Una omologia è una particolare funzione matematica che permette di associare una serie di oggetti algebrici, come un gruppo abeliano, ad altri oggetti matematici, come ad esempio uno spazio topologico. Allora una sfera omologaè uno spazio a $n$ dimensioni il cui gruppo di omologia è quello della sfera. Un esempio di questo particolare oggetto matematico è la sfera omologa di Poincaré, nota anche come spazio dodecaedrico di Poincaré, che, come suggerisce il nome, può essere costruito a partire da un dodecaedro (un poliedro con 12 facce).

Lo spazio dodecaedrico - via The manifold atlas project
Nel 2003 un team guidato da Jean-Pierre Luminet dell'Osservatorio di Parigi, partendo dalle osservazioni di WMAP, il satellite che ha studiato la radiazione cosmica di fondo prima di Planck, ha suggerito che la forma dell'universo fosse quella di una sfera di Poincaré(1). Uno studio successivo, i cui risultati vennero pubblicati nel 2008, basato su tre anni di dati sempre di WMAP fornì ulteriori conferme al modello secondo il quale viviamo in uno spazio dodecaedrico di Poincaré(2). L'idea, però, viene fortemente indebolita, se non abbandonata del tutto, nel 2016 quando dall'analisi dei dati raccolti da Planck si conclude che la topologia dell'universo non può essere quella di uno spazio compatto(3), come la sfera omologa di Poincaré o un piano proiettivo più in generale. Ovviamente ciò non vuol dire che viviamo su un piano infinito, ma che la storia potrebbe essere leggermente differente da quello che pensiamo, un po' come per i saggi bendati che cercano di capire la forma di un elefante.
  1. Luminet, Jean-Pierre; Jeff Weeks; Alain Riazuelo; Roland Lehoucq; Jean-Phillipe Uzan (2003-10-09). Dodecahedral space topology as an explanation for weak wide-angle temperature correlations in the cosmic microwave background. Nature. 425 (6958): 593–595. doi:10.1038/nature01944 (arXiv
  2. Roukema, Boudewijn; Zbigniew Buliński; Agnieszka Szaniewska; Nicolas E. Gaudin (2008). A test of the Poincare dodecahedral space topology hypothesis with the WMAP CMB data. Astronomy and Astrophysics. 482 (3): 747–753. doi:10.1051/0004-6361:20078777 (arXiv
  3. Ade, P. A. R., Aghanim, N., Arnaud, M., Ashdown, M., Aumont, J., Baccigalupi, C., ... & Battaner, E. (2016). Planck 2015 results-XVIII. Background geometry and topology of the Universe. Astronomy & Astrophysics, 594, A18. doi:10.1051/0004-6361/201525829 (arXiv

Il cammino della cumbia

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Puntualmente con la fine dell'anno ritorno ad ascoltare The last good day of the year dei Cousteau e tutto il loro disco d'esordio. E con la calda voce di Liam McKahey nelle orecchie mi metto a leggere qualcosa che con i Cousteau ha ben poco a che fare, Il cammino della cumbia di Davide Toffolo.
Il libro, edito da Oblomov, lo prendo quasi a scatola chiusa. In fondo il leader dei Tre allegri ragazzi morti aveva già realizzato un pezzo in stile cumbia presente nel disco Inumani dove Jovanotti faceva da guest star e in generale il suo stile narrativo, fatto di vignette ampie e ariose, mi piace non poco, così nonostante i difetti dell'editore (assenza di informazioni sull'opera che si vorrebbe acquistare o sull'autore che l'ha realizzata, e motivo per cui non ho acquistato molti titoli di Oblomov) acquisto l'ultima opera di Toffolo, che, come ricorda Francesco Pelosi nella sua recensione su LSB, era già stata serializzata su Linus.
In questo senso la struttura episodica emerge anche nella raccolta in volume, soprattutto come difetto e non come valore aggiunto: né l'autore né l'editore, infatti, pensano bene di inserire indicazioni che identificano ciascun episodio, cosa che in alcuni punti avrebbe decisamente giovato alla lettura stessa.
Ad ogni modo, tornando ai contenuti, l'idea di Toffolo è quella di raccontare il viaggio di scoperta delle radici della cumbia fatto all'inizio del 2018 insieme con Paulonia Zumo e Nahuel Martinez. Toffolo, però, non vuole realizzare un semplice reportage, ma costruire intorno anche una storia in qualche modo magica, come evidente dalla scena iniziale che lo vede a testa in giù, un modo esplicito per rappresentare l'effetto della scoperta di questo stile musicale sull'autore. Lo stesso Martinez, poi, nel corso di tutta la narrazione prova a divertire Toffolo con una serie di giochi di prestigio più o meno mal riusciti, tutti rappresentati in soggettiva come se l'autore volesse in realtà proporli al lettore stesso.
Toffolo in questo primo volume prova a mescolare allora storie di musica e leggende locali, ma anche a inserire riferimenti pop tipicamente occidentali, come il Dottor Strange o alcune pagine kirbyane, senza dimenticare due gustosissime pagine con il Pippo disneyano. Il risultato non è sempre efficace, non solo per la narrazione frammentaria, ma anche per una struttura non sempre leggibile: la composizione della pagina, infatti, in alcuni punti risulta caotica e non sempre ovvia nella lettura, costringendo a rileggere alcuni passaggi non appena ci si rende conto di aver commesso un errore di lettura.
Tra gli spezzoni da diario di viaggio che alternano i racconti dei protagonisti di stampo giornalistico c'è in particolare il rapporto erotico tra Toffolo e la Zumo fatto di frecciatine che andando avanti nella lettura da siparietto al limite del divertente diventa stucchevole e ripetitivo, trasmettendo la sensazione di essere di fronte a una ninfomane.
Altro elemento che colpisce (in maniera positiva), ma che è abbastanza coerente con la produzione di Toffolo, è la colorazione non realistica, molto accesa, in alcuni punti quasi psichedelica, che accompagna il lettore in maniera più o meno efficace nei vari passaggi.
Utili e interessanti, invece, i riferimenti ai personaggi nell'appendice del volume, che permettono di contestualizzare meglio la musica raccontata da Toffolo e di incuriosire (si spera) il lettore per andare a scoprire un po' di più una musica per lo più sconosciuta. E in qualche modo così faccio anche io, cercando di non farmi influenzare dal parere di Cecilia Ibanez che la cumbia non la ama molto.
E così scopro un genere che, in realtà, aveva già influenzato in qualche modo i lavori di Toffolo con i Tre allegri ragazzi morti (sto pensando in particolare a Primitivi del futuro), ma che è interpretato in una vastità di modi piuttosto ampia, tanto che alla fine posso affermare di non amare particolarmente la cumbia, ma di apprezzare alcune canzoni che in qualche modo ne incorporano le atmosfere, come la Cumbia triste dei Cacao Mental, dove peraltro è ospite speciale lo stesso Toffolo, che è produttore del gruppo di cumbia italiana attraverso La Tempesta.
Nel complesso, comunque, questo primo volume risulta un'operazione riuscita (e forse molte delle perplessità verranno risolte nel volume successivo), visto che mi ha spinto a cercare qualcuno dei musicisti citati da Toffolo, permettendomi di scoprire un panorama musicale nuovo e, come tutti del resto, ricco di robe interessanti e di altre un po' meno.

Topolino #3292: Orgoglio, pregiudizio e paperi

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L'ultimo numero di Topolino del 2018 si apre con la prima puntata di Orgoglio e pregiudizio, parodia dell'omonimo romanzo di Jane Austen realizzata da Teresa Radice e Stefano Turconi che era stata anticipata nel corso di Cartoomics 2017 ai prodi intervistatori di LSB che all'annuncio diedero voce a tutto il loro stupore e ammirazione (lo so bene, visto che c'ero!). Per cui iniziamo proprio con la prima delle tre puntate previste:
Dove si introducono i personaggi e si prepara la vicenda
Non avendo ancora iniziato ad affrontare le opere più corpose della Austen, il confronto tra la parodia e il romanzo viene rimandato a tempi migliori, anche se il confronto con lo stile della scrittrice britannica è, invece, più semplice. D'altra parte la stessa Austen fa parte della storia, visto che la sua versione papera racconta la storia alla versione papera della sua migliore amica, Martha Lloyd. Questa interazione, però, permette ai due autori di alternare le scene del romanzo al dialogo tra le due amiche, con Martha che si appassiona sempre più alla narrazione di Jane, che si mostra molto affabulatoria e con quel pizzico di ironia tipico della vera Austen, senza dimenticare lo stile narrativo in cui sembra quasi che la scrittrice non conosca a fondo né come si dipanerà la storia né come reagiranno i suoi stessi personaggi. Questo espediente genera così attesa in Martha ma anche nel lettore. I protagonisti della parodia, invece, sono i paperi. La scelta dei personaggi, però, se da un lato risulta più efficace dell'altra grande parodia di genere simile uscita quest'anno, Piccole papere, dall'altro fa un po' storcere il naso visto che si assegna a Paperetta Yé-Yé il personaggio più anziano, Jane, mentre è Paperina ad avere quello più giovane, Elizabeth, tra le due sorelle Pennet, che ovviamente prendono il posto dei Bennet del romanzo. Alla scelta cronologica si aggiunge anche l'idea in qualche modo confortante della sostituzione del padre di famiglia dei Bennet con Nonna Papera/Elvira Pennet e della madre di famiglia con Brigitta/Bridget Pennet. La coppia tradizionale del romanzo viene così sostituita da due sorelle, Elvira e Bridget, e da cinque nipoti (a Paperetta e Paperina sono aggiunte Ely, Emy ed Evy) saltando così la generazione di mezzo: d'altra parte si sa che i genitori non sono importanti(1)...
A parte questi piccoli dettagli, i personaggi scelti sono perfettamanete calati nell'atmosfera dell'epoca (i primi dell'Ottocento) e non tradiscono i loro caratteri di base. In particolare spicca Fethry Bingpap, interpretato da un Paperoga in grande spolvero nella sua sbadataggine continua. Altrettanto interessanti, soprattutto per come potrebbero crescere nel resto degli episodi, sono Paperino/Donald Duckcy, ovvero sir Darcy, e Gastone/Gaston Whickham, ovvero... Whickham. D'altra parte i due personaggi originali sono in conflitto anche nel romanzo, quindi la scelta dei due spasimanti di Elizabeth era più che ovvia, soprattutto dopo aver scelto Paperina nel luogo della più giovane delle sorelle Pennet.
La storia scritta dalla Radice risulta alla fine veloce e divertente, ottimamente supportata dallo stile per l'occasione particolarmente morbido di Turconi. Il disegnatore, infatti, sembra ammorbidire molto il suo tratto, risultando molto più warnerbrossiano del solito: in particolare penso a Cane all'opera del 1957, corto diretto da Chuck Jones con le animazioni di Ken Harris, Abe Levitow e Richard Thompson costruito per essere una parodia delle opere wagneriane (ma questo è solo il primo esempio che mi è venuto in mente).
Le attese per una gran bella parodia ci sono, dunque, tutte.
Zio Paperone racconta
La rivoluzione introdotta da Don Rosa prima con la sua Saga e poi con i racconti collaterali (le così dette appendici) è stata ovviamente accolta dagli altri autori disneyani con una certa calma, in particolare in Italia dove, grazie a Guido Martina, c'era una tradizione consolidata per narrare il passato di Paperone. Tra gli autori che, però, più velocemente si sono adattati alle storie di Don Rosa c'è indubbiamente lo sceneggiatore Carlo Panaro, che con Il ricordo di un giorno si inserisce nella linea narrativa donrosiana aggiungendo un pezzetto inedito al periodo in cui Paperone e Doretta Doremì hanno condiviso il lavoro presso la concessione del Fosso dell'Agonia Bianca. A dare il là alla vicenda ci pensa, peraltro, Paperetta Yé-Yé, personaggio introdotto da Romano Scarpa come nipote della vecchia fiamma di Paperone (Doretta era la nonna di Paperetta).
Panaro fornisce un'interpretazione dei due personaggi che in qualche modo può essere considerata come una sintesi tra Carl Barks e Don Rosa, mentre il finale ha un gusto particolarmente donrosiano, anche se al tempo stesso si discosta dalle storie del fumettista del Kentucky. Ottima anche la prova della disegnatrice Daniela Vetro, che mostra praticamente in ogni vignetta una particolare cura nel trattegiare ambienti e personaggi, a differenza di quanto aveva fatto su Tre papere irresistibili.
Nel complesso Il ricordo di un giorno risulta decisamente all'altezza della storia d'apertura e del settimo episodio di Alla ricerca di Topolino.
  1. A chi mi verrebbe a obiettare che tali pensieri li ho solo in luogo della mia età adulta, ribatto che, in realtà questa stranezza l'avevo rilevata sin da bambino. 

A metà del guado

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La tradizionale suddivisione della fascia zodiacale(1) in 12 zone risale agli antichi babilonesi, che in effetti all'inizio avevano suddiviso tale fascia in 17 zone differenti, salvo poi ridurle con il miglioramento delle tecniche di osservazione, supportati dall'idea di associare ciascuna zona a un mese dell'anno. Questa tradizione venne successivamente incorporata nelle culture ebraica, greca, romana ed è risultata sostanzialmente invariata nel corso dei secoli nonostante la precessione degli equinozi.
La prima costellazione che dà inizio alla fascia zodiacale è quella dell'Ariete per concludere il suo percorso con i Pesci; tradizionalmente, però, l'anno si conclude e inizia mentre il Sole attraversa la costellazione del Capricorno. Il motivo di tale scelta è, molto probabilmente, legato al solstizio d'inverno, che sancisce la fine dell'autunno e l'inizio della stagione più rigida dell'anno. L'importanza del solstizio d'inverno, soprattutto per quel che riguarda l'agricoltura, era fondamentale: gli antichi romani ritenevano che il sole scendesse letteralmente negli inferi per poi risorgere dopo tre giorni (ricorda qualcosa?), ovvero nella notte tra i nostri 24 e 25 dicembre (ricorda anche questo qualcosa?). Inoltre con il solstizio d'inverno iniziano 12 giorni di passaggio, definiti come "crisi solstiziale" che sanciscono il passaggio dall'anno vecchio all'anno nuovo: il passaggio non era netto e durante questi 12 giorni l'anno morente conviveva con l'anno nascente, che poteva considerarsi pienamente arrivato solo nel nostro 6 gennaio, durante l'epifania. In effetti il detto "l'epifania tutte le feste si porta via" risulta molto più logico, considerando la sua collocazione all'interno del calendario. Quindi la fine dell'anno vecchio e l'inizio di quello nuovo era il punto intermedio in questa "crisi solstiziale", diventando così la fine del calendario precedente e l'inizio di quello nuovo. Inoltre la scelta del 12 come durata della "crisi solstiziale" non era casuale, ma legata esattamente alle 12 costellazioni che il carro del sole, che noi oggi abbiamo sostituito con la slitta di Babbo Natale, deve attraversare durante il suo percorso annuale nel cielo.
Il cielo è, dunque, ricco di storie che sono lì per essere tramandate e ha ispirato, anche con i passaggi stagionali, tradizioni, miti e leggende che con la cristianizzazione prima e la commercializzazione delle feste poi tendiamo spesso a dimenticare, ma è sempre bello scoprirle (o riscoprirle) ogni tanto per costruire e arricchire il nostro sense of wonder nei confronti della vita.
Dunque, un buon anno a tutti!
Questo breve post raccoglie e rielabora giusto alcune delle informazioni contenute in un bellissimo articolo di Marco Maculotti su AXIS mundi che vi consiglio caldamente di leggere!

  1. La striscia lungo la quale si svolge il moto apparente del Sole 

Whiskey in the jar

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Whiskey in the jarè una canzone popolare irlandese che probabilmente risale al diciassettesimo secolo. Protagonista della storia narrata dalla ballata è il bandito Patrick Fleming, che venne giustiziato il 24 aprile del 1650, da qui la datazione della canzone. Dopo vari passaggi e trasformazioni musicali e geografiche, venne incisa per la prima volta nel 1968 dal gruppo folk irlandese dei Dubliners, mentre la prima versione rock risale al 1972 grazie ai Thin Lizzy, anche questa band irlandese. La versione che vi propongo per chiudere il primo giorno del 2019 è, però, quella dei Metallica, che fa parte dell'albumGarage Inc. del 1998:

Verso i confini del sistema solare

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La sonda New Horizons, lanciata il 19 gennaio del 2006, è assurta agli onori delle cronache grazie al passaggio accanto a Plutone avvenuto il 14 luglio del 2015 che ci ha permesso di avere le prime fotografie ravvicinate del pianeta nano che ruota così lontano dal Sole. L'1 gennaio del 2019 New Horizons ha ottenuto un altro piccolo successo: avvicinarsi a uno degli oggetti della fascia di Kuiper, Ultima Thule, che dai dati ottenuti dall'osservazione da Terra sembrava essere composto da due asteroidi distinti che si erano fusi uno con l'altro dopo un urto che si suppone abbastanza catastrofico. Da poche ore sono state rilasciate le prime immagini distinguibili dell'oggetto che confermano l'osservazione fatta dalla Terra, come vedete in questa immagine condivisa da Brian May sul suo profilo instagram:
Lo stesso May ha celebrato la missione con la canzone New Horizons il cui video ufficiale è stato rilasciato il 31 dicembre 2018 sul canale YouTube ufficiale dei Queen:

Tolkien e le lingue di Arda

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Dopo il recente trittico di articoli tolkeniani (la recensione di Kullervo, l'articolo dedicato all'ultima luna d'autunno e lo speciale de le grandi domande della vita sulla Terra di Mezzo) oggi, che è il giorno della nascita di J.R.R. Tolkien vi propongo un estratto dalla voce su it.wiki dedicata allo scrittore e filologo britannico:
Tra gli insoliti hobby di Tolkien vale infine la pena ricordare ciò che descrisse nel suo saggio Il vizio segreto (A Secret Vice, pubblicato nella raccolta Il medioevo e il fantastico), ovvero l'invenzione di nuovi linguaggi.
Tutto ebbe inizio quando il giovane Tolkien ascoltò per caso un gruppo di ragazzi parlare in "animalico" (o "animalese"), un linguaggio-gioco che si serviva esclusivamente di nomi di animali e numeri per comunicare qualsiasi tipo di informazione. Ad esempio "cane usignolo picchio quaranta" poteva voler dire "tu sei un somaro". Successivamente l'animalico venne dimenticato e sostituito da un nuovo idioma: il "Nevbosh", che storpiava in maniera irriconoscibile le parole inglesi sostituendole in alcuni casi con altre latine o francesi. Da allora l'interesse di Tolkien per le lingue non fece che aumentare. Nel suo saggio Inglese e gallese Tolkien ricorda il giorno in cui per la prima volta vide su una lapide le parole "Adeiladwyd 1887" ("Costruito nel 1887") e se ne innamorò. Il gallese divenne una fonte inesauribile di bei suoni e perfette costruzioni grammaticali, un linguaggio melodioso a cui poter attingere per le sue future invenzioni linguistiche. Infatti, dopo il gallese venne il finnico (suomi), e prima di esso il greco e l'italiano, e l'immaginazione prese il sopravvento.
La recensione del libro citato in questo estratto, Il medioevo e il fantastico, la trovate su SciBack insieme con l'articolo dedicato all'uomo verde, sir Gawain e lo scudo di quest'ultimo.

Topologia cosmica

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Non ho ancora finito con l'universo e la sua visione dal punto di vista matematico. In particolare oggi vorrei occuparmi (e con questo dovrei chiudere la serie degli articoli sul tema) della topologia cosmica, ovvero quella branca della cosmologia che si innesta alla topologia per studiare la forma dell'universo. Il problema principale, come ho avuto modo di scrivere in altre occasioni, è riuscire a determinare le proprietà globali dell'universo a partire da quelle locali, avendo però come idea di partenza che l'universo visibile sia una porzione di tutto il cosmo e dunque che le proprietà del primo siano da considerarsi locali rispetto a quelle del secondo. Ovviamente la storia è anche complicata dal fatto che le teorie che suggeriscono delle modifiche alla gravitazione non sono ancora definitivamente defunte, come raccontano molto bene Sabine Hossenfelder e Stacy McGaugh su Scientific American in un articolo pubblicato anche in italiano su Le Scienze di dicembre 2018(3).
Mettiamo, però, da parte questi oscuri discorsi e torniamo alla topologia cosmica. Le basi della disciplina vengono poste sin da subito, visto che oltre all'universo semplicemente connesso di Albert Einstein, nei decenni successivi a varie riprese Alexander Friedmann, Willem de Sitter e Georges Lemaitre proposero descrizioni dell'universo topologicamente differenti da quella originale. A parte rari ritorni di fiamma, però, la geometria dell'universo non fu un vero oggetto di ricerca, né la topologia cosmica venne mai nominata ufficialmente fino a che non arrivarono i risultati di COBE, il primo dei tre satelliti che hanno studiato dallo spazio la radiazione cosmica di fondo: siamo nel 1995 quando Marc Lachièze-Rey e Jean-Pierre Luminet coniano per la prima volta la cosmic topology(1).
Uno dei principali quesiti cui la topologia cosmica vuole cercare di rispondere è quello legato alla curvatura globale dell'universo, essendo questa legata al destino ultimo del cosmo e degli oggetti che si trovano ancorati a esso. Come scritto negli altri articoli, i risultati delle osservazioni di WMAP e Planck hanno permesso di escludere alcune tipologie di spazi, mentre restano ancora in gioco come possibilità gli spazi multi-connessi. Inoltre la speranza è quella che, approfondendo ulteriormente lo studio della radiazione cosmica di fondo, si riescano a trovare delle tracce, anche flebili, collegate alla topologia globale dell'universo oltre l'orizzonte cosmico(2).
Ciò che, però, è ancora più misterioso e probabilmente molto più importante da determinare è se la topologia dell'universo è rimasta identica nel corso degli eoni o se ha subito più di una modifica. Il problema è strettamente legato alla gravità quantistica, vista l'origine quantistica dello stesso spaziotempo all'interno dei molti modelli di questoi genere, primo fra tutti la gravità a loop. Il primo a suggerire una fluttuazione di tipo quantistico per la topologia spaziotemporale fu John Wheeler, portando alla nascita del concetto di schiuma spaziotemporale per indicare uno spaziotempo in continuo cambiamento(2).
Alla fine quello che possiamo concludere è che la forma dell'universo non può essere nulla di veramente banale e qualunque struttura geometrica che utilizziamo per rappresentarla ha il pregio di enfatizzare la caratteristica che ci interessa rilevare nella discussione che stiamo portando avanti e nulla più. Anche perché la geometria è legata alle proprietà locali di uno spazio, mentre la topologia è legata alle sue proprietà globali. Non dimentichiamo, infatti, che l'universo all'interno dell'orizzonte cosmico mostra di possedere una geometria piatta con una metrica non-euclidea, il che implica che la sua forma (che è una proprietà globale e dunque topologica) non può essere banalmente piatta ovvero non può essere equivalente a un telo teso all'interno di una stanza.
  1. Lachieze-Rey, M., & Luminet, J. P. (1995). Cosmic topology. Physics Reports, 254(3), 135-214. doi:10.1016/0370-1573(94)00085-H (arXiv
  2. Luminet, J. P. (2015). Cosmic Topology. Scholarpedia, 10(8), 31544. doi:10.4249/scholarpedia.31544 
  3. Hossenfelder, S., & McGaugh, S. S. (2018). Is Dark Matter Real?. Scientific American, 319(2), 36-43. doi:10.1038/scientificamerican0818-36 

Topolino #3293: Il buongiorno

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In un certo senso se il buongiorno si vede dal mattino allora si deve concludere che ci saranno pochi topi nel 2019 di Topolino. Il sommario del primo numero del settimanale disneyano, infatti, vede la presenza di Topolino sull'ultimo episodio di Alla ricerca di Topolino, la saga scritta da Francesco Artibani per la Disney, e una breve quasi muta di Pietro Zemelo e Gigi Piras con Pippo protagonista.
Accontentandoci di quel che passa la redazione, consoliamoci con la seconda puntata della parodia di Orgoglio e pregiudizio di Jane Austen:
Dove un cuore viene spezzato e una rivelazione viene esternata
Il secondo volume riprende da dove era finito il precedente, in particolare con la richiesta di matrimonio da parte di Picollins a Elizabeth, che ovviamente rifiuta, protetta dalla forza d'animo della Nonna contro le rimostranze della zia Bridget. La scena è deliziosamente divertente, anche grazie a una vignetta metafumettistica in cui le parole di Picollins sommergono letteralmente la povera Lizzy che deve cercare spazio all'interno della vignetta facendosi largo tra i fumetti del logorroico cugino nonché esattore del burbero lord Paperon De Bourgh, ovvero il buon Paperon de Paperoni, che fa il suo esordio esattamente in questo episodio con una caratterizzazione che ricorda molto da vicino quella originale di Carl Barks.
Il tutto viene impacchettato in una confezione divertente, gradevole, ironica ma anche con quel pizzico di romanticismo tipico non solo della Austen ma anche delle storie di Teresa Radice, come sempre ottimamente supportata dal marito Stefano Turconi che conferma quanto già scritto relativamente al primo volume e propone una chicca interessante, visto che il simbolo della valuta sul palazzo di De Bourgh è lo stesso della valuta utilizzata in sudafrica che campeggia sul deposito di Cuordipietra Famedoro!
Dal flippismo al mezzopienismo
Il flippismoè una corrente filosofica fondata dal professor Picchiatelli che ha come obiettivo quello di risolvere i problemi con il lancio di una moneta. Ne veniamo a conoscenza sulle pagine de La filosofia flippista di Barks e vede come protagonista Paperino, travolto dall'entusiasmo di Picchiatelli. Bruno Sarda e Lucio Leoni a poco più di 65 anni di distanza coinvolgono Paperino in un altra corrente filosofica non molto lontana dal flippismo: Il mezzopienismo.
Vate di questa nuova disciplina è il buon Paperoga, illuminato dal tomo essenziale di Lotty Mist, che suggerisce di vedere sempre il bicchiere mezzo pieno. La storia, gradevole, si rivela incredibilmente educativa, visto che i guai che coinvolgono i due cugini vengono visti ogni volta in un'ottica positiva, almeno fino all'evento conclusivo che condurrà Paperoga a mettere in crisi l'essenza del mezzopienismo.
Una favola senza pensieri
Le storie di Fabio Michelini, soprattutto nell'ultimo periodo, hanno il gusto più di favole moderne che non di avventure vere e proprie. Ricche di ispirazioni barksiane, hanno una struttura abbastanza standard: Paperone ha un problema e si rivolge o ad Archimede o ai suoi esperti; si giunge a un'impasse e spesso è Paperino, a volte in maniera inconsapevole, a fornire l'idea risolutiva o, inevitabilmente, a mettere in crisi lo svolgimento degli eventi. Non sfugge a questa struttura, pur con le sue variazioni, nemmeno Il cappello spensatore, dove Paperone produce l'inconsueta invenzione di Archimede: un cappello in grado di svuotare i penseri delle persone, rendendole più leggere e rilassate.
Svuotare i pensieri è indubbiamente possibile e non c'è bisogno di alcun cappello, ma Michelini aggiunge all'operazione un imprevisto: i pensieri negativi che il cappello espelle dalla testa di chi lo utilizza e che forniscono l'energia necessaria ad Amelia per attaccare il deposito, che costituisce la seconda parte della storia, oltre che l'elemento più prettamente favolistico della storia.
Ai disegni troviamo, come sempre succede per le storie di Michelini di quest'ultima fase della sua carriera, Luciano Gatto, che continua a deliziare i lettori con il suo tratto rotondo e scarpiano, pur se a volte con qualche incertezza nelle espressioni dei personaggi.
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